Smontare il tripode


Nebbia


Per esempio qualche chilometro fuori Milano, d'inverno, di sera, o mattina presto.
In auto, solo.
Strada di campagna, tra un paese e l'altro.
Non si vede la strada. Non c'è la riga. C'è un fosso tra la strada e il campo. Attenzione.
Non c'è nessuno in giro.
Piano.
Attenzione.
Davanti, solo il bagliore dei fari, grigio. Giallognolo, ma grigio.
Di fianco, buio denso.
Attenzione a non uscire di strada, a non finire nel fosso (e dover aspettare, da solo, qui).
Attenzione a non urtare un paracarro (un po' come evitare uno spigolo camminando al buio).
Attenzione, concentrazione.
Fatica.
Non solo fatica. Nervosismo.
Anche forse un filo d'angoscia.
Perché non ho voluto la radio in quest'auto?
Da fuori nessun rumore.
Guardo nella nebbia, strizzo gli occhi, cerco di vedere più in là.
Niente.
Pulisco il parabrezza. O sono gli occhiali appannati?
Apro il finestrino, forse vedo meglio se metto fuori la testa. No. In più fa freddo. Ritiro la testa. Richiudo.
Sarà la strada giusta?
Andare avanti, al primo incrocio si capirà.
Ma quale incrocio.
Un filo d'angoscia.
Vedo lo zaino sul sedile a fianco. Mi sento meglio. Mi ricorda che c'era qualcosa prima della partenza. Mi conferma che ci sarà qualcosa all'arrivo.
Ma basta, devo concentrarmi sulla guida. Basta stare attenti, andare piano. Prima o poi ne esco.
Mi metto a cantare. Non mi ricordo le parole, sostituisco con la-la-la.
Ma so fischiare. Fischio il motivo.
Meglio concentrarsi sul tentativo di vedere qualcosa.
Vorrei una conferma che questa è la strada giusta.
Vorrei una conferma.
La conferma che vorrei è la conferma che esisto. Vorrei non essere solo in auto. Vorrei accendere la radio (averla!).
Lo zaino, o altri oggetti familiari, ma estranei all'auto e alla guida, qualche conforto me lo danno. Mi parlano della mia vita, attività, relazioni.
L'auto non basta.
Quando guido, soprattutto nella nebbia, l'auto sono io. Estende le mie facoltà, la guido come cammino, come nuoto, come manovro la biro quando scrivo. Non devo badare ai dettagli, ai movimenti separati di mani e piedi (di muscoli e tendini, la coordinazione motoria), questo si fa quando si impara. Poi l'auto è un estensione di sé.
Quindi non mi basta.
Un paracarro (che temo "per non farmi male", prima che per i danni concreti che può fare se l'auto lo urta: l'auto, non io), quando lo vedo mi conferma se non altro che esiste qualcosa che non sono io (e che mi sto muovendo). E quindi esisto anch'io.
Un segnale stradale, anche se non mi dice niente di utile, un cartellone pubblicitario. Un'altra auto. Qualche suono.
Certo, vorrei che finisse.
Vorrei arrivare a quell'incrocio o rotonda che deve esserci tra un po', individuare un edificio, entrare in un paese, dove la nebbia è meno fitta (anche se sufficiente a camuffare il luogo).
Vorrei trovare un bar, incontrare qualcuno, bermi un caffè. Magari ci incontro qualcuno che mi conosce, e mi saluta. O anche qualcuno che non mi conosce, ma che mi saluta lo stesso.
La nebbia è come la deprivazione sensoriale. Ti manda fuori. Fuori dalla realtà.
La nebbia cancella tutto, cancella anche me.
Vorrei una conferma.

Da leggere:

Cristina Trentini. "Rispecchiamenti - L'amore materno e le basi neurobiologiche dell'empatia". Il pensiero scientifico editore.





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